Disabilità e opportunità nelle Università e nella Ricerca: intervista a Matteo Schianchi

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Quali opportunità hanno realmente di fare ricerca nelle università italiane le persone con disabilità? Ne parliamo con Matteo Schianchi, assegnista di ricerca presso l’Università di Milano-Bicocca ed autore, tra gli altri, di La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà (2009); Storia della disabilità. Dal castigo degli dèi alla crisi del welfare (2012); Il debito simbolico. Una storia sociale della disabilità in Italia tra Otto e Novecento (2019).

 

Ci sono alcune parole chiave che vediamo impiegate spesso nel discorso sulla disabilità. Alcune di queste sono accessibilità, inclusione e abilismo. Qual è la sua definizione di questi concetti?

Accessibilità è sicuramente e giustamente un termine chiave, che però non va inteso, come spesso capita, solo dal punto di vista architettonico e in relazione alle persone che hanno disabilità fisico-motoria sensoriali. Il concetto di accessibilità è molto più ampio, e riguarda anche la comunicazione e l’accessibilità alle relazioni stesse.In ambito universitario il tema è decisivo perché non si tratta solo di accedere agli spazi della ricerca ma si tratta anche di accedere ai saperi e alle esperienze della ricerca stessa. Quindi, in questo senso, l’accessibilità deve essere declinata anche sotto questi profili che sono sicuramente molto più impegnativi di una rampa o di un ascensore, ma senza i quali non si può pensare che esista un’accessibilità in senso lato.

Anche il termine inclusione è un termine chiave, per certi versi anche abusato, nel senso che si tratta di costruire collegialmente - e quando dico collegialmente intendo anche con la presenza delle persone con disabilità - modelli e soprattutto pratiche di partecipazione. Quello dell’inclusione è diventato anche un po’ slogan: sembra che automaticamente si debba fare dell’inclusione. Ci sono persone con disabilità che non hanno nessuna voglia di stare insieme agli altri, così come ci sono persone senza disabilità che non hanno nessuna voglia di stare insieme agli altri. Allora forse più che inclusione direi partecipazione e possibilità di autodeterminarsi. Forse questi due termini sono molto più rispettosi dell’individuo e delle sue relazioni.

Riguardo al termine abilismo, ultimamente vedo che si sta diffondendo molto. Com’è noto, nasce all’interno dei Disability Studies, ma si tratta di un concetto che non uso mai e che mi convince veramente poco, perché come gli altri termini mi sembra uno slogan molto facile, che in questo caso è usato soprattutto dalle persone con disabilità e che quindi può anche rappresentare un’interessante presa di parola da parte delle persone con disabilità, una dinamica dal basso. Però non mi sembra un termine particolarmente efficace. Il concetto di abilismo prevede che ci siano delle forme di stigmatizzazione e discriminazione legate ad un funzionamento corporeo o sociale complessivo basato sulla normalità. Ma è sempre stato così, non c’è bisogno di inventare un termine. Inoltre, il concetto di disabilità è altamente ambiguo: non ci sono termini che permettono di accedere alle esperienze di tutti. Quindi mi sembra che sia quando si parla di disabilità, sia quando si parla di abilismo si cerchi di scompigliare un po’ le carte senza farlo veramente. Le complessità legate alla disabilità sono talmente tante, usare il termine abilismo, anche politicamente, non ha presa. I meccanismi attraverso cui si sviluppa la discriminazione e l’esclusione delle persone con disabilità sono talmente complessi e articolati da non poter essere ricondotti soltanto all’abilismo.

 

Con riferimento a quest’ultimo concetto, secondo lei una visione abilista rappresenta un problema presente all'interno del sistema universitario? Se sì, quali sono i versanti su cui questa problematicità si riversa in modo più concreto?

Sappiamo che all’interno dell’università esistono dei servizi per persone con disabilità e/o con disturbi specifici dell’apprendimento. Non si tratta di leggerli in una chiave abilista, ma in termini di accessibilità all’accademia, non ai bagni o alla mensa (cose che vanno da sé, visto che è il minimo che si possa fare). L’accessibilità all’accademia serve per studiare, per fare ricerca, per costruirsi una cultura, per laurearsi, per proiettarsi verso il futuro. Quindi in questo senso l’abilismo c’entra poco, c’entra il fatto che devono essere previsti servizi che fanno quello per cui sono stati introdotti.

 

Nell’art. 2 comma 4 della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità si parla di “accomodamento ragionevole”. Le norme presenti in Italia riguardanti disabilità e università sono riconducibili al pagamento delle tasse universitarie e all'uso di tutor e ausili. Sono sufficienti e sufficientemente applicate? Corrispondono all'applicazione del concetto di "accomodamento ragionevole"? 

Dal punto di vista numerico, non lo so e, quindi, non potrei dire qual è l’impatto di queste norme. Io conosco il servizio disabilità dell’Università Bicocca di Milano e su quello posso dire che c’è un buon funzionamento. Dal punto di vista dell’andamento generale in Italia non sono in grado di rispondere. Non sono sicurissimo che sia questo punto della convenzione ad assicurare il buon funzionamento dei servizi legati alla disabilità delle università. L’accomodamento ragionevole lo si può misurare in termini generali, però in termini specifici ciascuno ha poi i suoi modi per costruire forme di apprendimento e di partecipazione che devono essere, appunto, specifici, e questo riguarda l’ambiente universitario ma anche tutto il percorso scolastico. Noi ancora pensiamo all’istruzione come “il sapere”, come un obiettivo a cui ognuno arriva per conto proprio, con i propri mezzi, e poi su quello si misurano le competenze ma in realtà è il contrario: l’accesso dell’individuo ha il sapere, quindi tutto questo si basa su quanta possibilità e quanta strumentazione viene concessa a quell’individuo per accedere al sapere. Da questo punto di vista il concetto di accomodamento ragionevole può essere utile per istituire dei servizi, ma non può essere il concetto su cui si basa l’accesso universitario, perché molto generale e non sufficientemente specifico. Diventa utile se riesce a garantire a ciascuno una risposta ai propri bisogni specifici.

 

I DSA non rientrano in nessuna delle categorie riguardanti la disabilità, ma sono argomento di dibattito quando si parla di accessibilità e accomodamento ragionevole. Crede che nell’ambito della ricerca ci sia consapevolezza rispetto a questo tema? Oppure, arrivati ad un certo punto della formazione, si ritiene che una persona debba aver acquisito tutte le strategie necessarie per compensare le proprie difficoltà di apprendimento? 

La ricerca sui DSA è sicuramente di alto livello. La consapevolezza dei mondi della ricerca credo che sia molto bassa. Forse in questo senso il mondo universitario sconta ancora di più rispetto ai cicli di formazione precedenti e sono obbligati. In questi casi, si impone che si debbano dare delle soluzioni alle persone con DSA. Il mondo della formazione universitaria, invece, non prevede che ci siano delle deviazioni da quello che è considerato il modello di trasmissione del sapere e di apprendimento, per cui davanti a uno studente con DSA i docenti hanno molti sospetti sulla reale natura di queste difficoltà. Per quanto non piacciano le etichette, devo dire che tutta la campagna fatta dalle persone con DSA, e questo non voler rientrare nei concetti di disabilità - al netto di tutta la complicazione del capire cosa voglia dire “disabilità” - è anche una scelta che vuole marchiare una condizione scartandola dalla condizione in cui, per senso pratico, si sarebbe portati a collocarla, ovvero quella della disabilità. In questo modo, però, si rafforza uno stigma: i disabili sono “gli handicappati”, quelli che non riescono, quelli che non ce la fanno, mentre “noi abbiamo semplicemente dei meccanismi diversi, quindi con delle strategie riusciamo lo stesso, quindi in questo senso non è che siamo ‘handicappati’. Uso questo termine di proposito. D’altra parte, c’è anche questo insistere sulla presunta genialità delle persone con DSA che, francamente, mi lascia sempre molto perplesso, sia in fatto di disabilità, sia in fatto di DSA, questo insistere sull’eccezionalità e la genialità mi lascia davvero perplesso.

Però forse in questo caso, secondo me, si può parlare di abilismo. Evitare di pensare alla disabilità associata ai DSA e pensandola come qualcosa da cui tirarsi fuori sembra un modo di pensare abilista.

Però, dato che non esiste nel mondo universitario una consapevolezza su cosa siano i DSA, forse le persone con DSA, le associazioni ecc, dovrebbe avere come obiettivo quello di descrivere cos’è che sono i DSA, non quello che non sono, cioè che non sono una disabilità. Anche se in forma grossolana e molto spesso stigmatizzante, il termine disabilità serve a qualificare tutta una serie di questioni. Quando invece ci si tira fuori senza qualificare meglio cosa comporta, cos’è questa condizione, quali sarebbero le possibilità di costruire forme di inclusione, accessibilità e partecipazione, non contribuisce ad avere una maggiore consapevolezza di quali sono le specificità di questa condizione.

 

Come ADI abbiamo evidenziato alcune criticità riguardanti i dottorati in Italia: l’art. 20 della legge 104/1992 sancisce la possibilità per i candidati a un concorso di accesso al Dottorato di svolgere le prove previste in condizioni più agevoli; secondo il DL 29 marzo 2012, n. 68, ai dottorandi con disabilità superiore al 66% è garantita l’esenzione totale dal pagamento delle tasse, sia universitarie (qualora continuino a gravare sulla frequenza dei corsi di dottorandi, nonostante la nostra richiesta di eliminarle) che regionali. Nei casi di disabilità compresa tra il 66% e il 45%, alcuni atenei prevedono delle riduzioni; il diritto all’esenzione è prevista per gli atenei sia pubblici che privati, ma che solo pochi di questi ultimi lo riconoscono e garantiscono. 

Secondo lei, a una persona con disabilità, in Italia, vengono date opportunità adeguate per affrontare un concorso di dottorato e, qualora risultasse vincitrice, svolgerlo nel migliore dei modi?

Secondo me no. Io, una persona con disabilità, ho fatto il dottorato in Francia. Non faccio un parallelo, però anche questa idea di “agevolare” è problematica, perché si porta dietro tutta la questione sull’esenzione, ma il punto riguarda la possibilità di poter svolgere seriamente un percorso di ricerca. L’esenzione parziale delle tasse di per sé non è uno strumento in tal senso. Le difficoltà che i dottorandi con disabilità incontrano sono paradossalmente la diretta conseguenza di un pensare il percorso di dottorato solo da un punto di vista delle “agevolazioni”, mentre il progettare un percorso di dottorato, che preveda l’acquisizione di competenze molto alte, prevedrebbe altri strumenti, che garantiscano l’accessibilità, e che non c’entrano nulla con le agevolazioni. Quindi la normativa è monca già in partenza, perché non è legata ai saperi ma alle agevolazioni, che servono fino a un certo punto. Vanno benissimo, ma il percorso di dottorato dipenderà da queste misure in una percentuale davvero minima.

 

Sempre in uno dei nostri comunicati riguardanti disabilità e ricerca, abbiamo fatto notare che i concorsi per categorie protette negli enti di ricerca pubblici (accademici e non) si rivolgono esclusivamente a personale tecnico e amministrativo. Che cosa ne pensa di questa situazione generalizzata? 

Questo fa parte del classico modo di affrontare il tema del lavoro in relazione alla disabilità, non solo nell’università. Mediamente, le persone con disabilità sono chiamate a fare colloqui o lavori per persone con disabilità, quindi mediamente poco qualificati. Il discorso che facevamo prima sul dottorato si porta dietro la possibilità di accedere alle carriere della ricerca. Già in entrata, al dottorato - e mi viene da dire anche prima - si costruisce un percorso sempre più stretto e ricco di impossibilità ad accedere a determinate opportunità per le persone con disabilità Nelle fasi successive, inoltre, ci si imbatte nei concorsi per ricercatori, che solitamente sono dei concorsi pubblici che prevedono la possibilità di dichiarare se una persona ha o non ha una disabilità legata alla 104. Quindi, mi viene da dire che la difficoltà delle persone con disabilità di accedere ai posti della ricerca non è altro che la misura della difficoltà di accedere delle persone con disabilità a posti nel mondo del lavoro di livelli superiori. Ed è così in tutti i settori. Parlando dell’università, mi viene da dire che questa progressiva inaccessibilità delle persone con disabilità al mondo della ricerca e dell’accademia è in un certo senso la conseguenza di quello che accade prima. La partecipazione effettiva al percorso universitario non è data dall’esistenza di un servizio, e neanche dall’esenzione delle tasse universitarie, ma da altro che le persone con disabilità e i responsabili ai servizi alle disabilità devono costruire. Ed è quando manca questo che poi si costruiscono delle barriere che impediscono di entrarci.