La precarietà uccide la ricerca: una risposta ai dirigenti degli IRCCS

La precarietà uccide la ricerca: una risposta ai dirigenti degli IRCCS

Il 14 luglio il “Decreto Dignità” (D.L. 87/2018) è entrato in vigore a seguito della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. In attesa della conversione in legge da parte del Parlamento, le polemiche sui contenuti del provvedimento non sono cessate e hanno toccato inaspettatamente anche il mondo della ricerca.

Lo scorso 18 luglio, infatti, è apparso sulla pagina web del Corriere della Sera un articolo a firma di Claudia Voltattorni, in cui i direttori di alcuni enti e istituti di ricerca esprimono «timori e perplessità» sulle nuove norme che regolano la durata massima e i rinnovi dei contratti a termine. Secondo quanto riportato dal Corriere, la questione sarebbe stata trattata con preoccupazione nel corso di una riunione dei dirigenti degli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) al Ministero della Salute.

Secondo i dirigenti degli IRCCS, i contratti precari sarebbero una condizione necessaria per mantenere funzionante e competitivo il sistema della ricerca in Italia. Il ragionamento si fonda su una presunta “specificità” del settore della ricerca, che richiederebbe al ricercatore di basare una «lunga fase della propria carriera su contratti non stabili». Tutto ciò malgrado il "Decreto Dignità" escluda esplicitamente dal suo oggetto "i contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni" (art.1 comma 3), applicandosi unicamente a 28 dei 49 IRCCS presenti in Italia (e non ad Università ed Enti Pubblici di Ricerca).

È un fatto che molti enti ed istituti di ricerca dipendano dal lavoro quotidiano di migliaia di ricercatori precari, che svolgono le loro attività in condizioni al limite della dignità e della decenza. Sono numerosi i ricercatori che hanno una retribuzione indegna della qualifica professionale raggiunta, o che usufruiscono di borse e mezzi di finanziamento non sufficienti a qualificarli legalmente come lavoratori, privandoli del diritto ai giorni di ferie, malattia e, in alcuni casi, anche dei congedi di maternità o paternità. Ed è solo dallo scorso anno, dopo due anni di lotta da parte di ADI e FLC-CGIL, che chi è titolare di un assegno di ricerca può accedere al sussidio di disoccupazione DIS-COLL.

È indegno e profondamente deprimente che queste condizioni lavorative possano essere considerate normali, e anzi necessarie per mantenere l’alto livello della ricerca italiana. Se esiste un nesso tra condizioni di lavoro e produttività scientifica, esso è senz’altro del tipo inverso rispetto a quello ipotizzato dai dirigenti degli IRCCS. La precarietà, l’assenza di diritti e tutele, non rendono i ricercatori magicamente più abili e produttivi: al contrario, impediscono loro di raggiungere migliori risultati e sviluppare il loro pieno potenziale.

Le norme contenute nel “Decreto Dignità” sono deboli ed inefficaci nel contrasto alla precarietà nella ricerca, che non è relativa alla sola durata dei contratti. E di certo i dirigenti degli istituti di ricerca non fanno che danneggiare i giovani ricercatori ergendosi a difesa di un sistema che ha costretto migliaia di loro a lasciare l’Italia o ad abbandonare la ricerca. Sono precarietà e scarsità di finanziamenti a mettere a repentaglio il settore della ricerca in Italia: è dunque necessario sostenere le ragioni e le battaglie di chi lotta per migliorare le condizioni di lavoro dei ricercatori, aumentare i fondi destinati alla ricerca, riaprire i canali del reclutamento, riaffermare il ruolo sociale di chi fa ricerca e sviluppo.

Le recenti dichiarazioni del sottosegretario Fioramonti fanno sperare che il governo abbia compreso la lezione, e si prepari a lavorare insieme a noi in questo senso. Speriamo che rettori e dirigenti degli enti e degli istituti di ricerca si decidano finalmente a fare altrettanto.