Bellofiore e Vertova: «La precarietà in Accademia incanala la ricerca e soffoca il pensiero critico»

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Bellofiore Vertova Università | L’ADI intervista Riccardo Bellofiore e Giovanna Vertova, curatori e autori di “Ai confini della docenza. Per la critica dell’Università”. I due autori ripercorrono l'insidioso percorso che scuola e università hanno attraversato con riforme sempre più ispirate a un disegno d'ispirazione neoliberista, spiegano le conseguenze del precariato sulla libertà e sulla qualità della ricerca scientifica ed espongono quali sono i principali problemi del dottorato in Italia.

 

“Ai confini della docenza. Per la critica dell'Università” ha, fra le altre cose, il pregio di offrire nei diversi contributi che lo compongono una prospettiva allo stesso tempo di lungo periodo e di sistema sulla crisi del sistema universitario italiano. Una crisi iniziata ben prima dei tagli della legge 133 del 2008 e della riforma Gelmini del 2010. Bisogna quindi risalire all’avvio di quel ciclo di riforme che, dagli anni ’90, hanno mutato la stessa funzione del sistema della formazione superiore e della ricerca, parallelamente ad una profonda ristrutturazione (o de-strutturazione) del capitalismo italiano. Esiste quindi un filo rosso che lega le diverse riforme analizzate nel libro, dalla riforma Berlinguer-Zecchino, fino alla Moratti e alla Gelmini?

Bellofiore: Noi abbiamo scelto, in parte per ragioni occasionali, di realizzare un volume che raccogliesse materiali e interventi già usciti altrove in un arco temporale ampio, proprio per restituire il senso di un processo di riforma “di lunga durata” dell’Università italiana. Come dico nel primo saggio, che l’università avesse bisogno di riforma era chiaro e scontato: una riforma ritardata dall’ondata dell’università di massa degli anni ’70. Ciò che metto in evidenza sono una serie di contraddizioni di base e colpevoli, perché Berlinguer – a differenza di altri ministri – veniva da una carriera universitaria e quindi era ben addentro a quel mondo. Una prima contraddizione è rappresentata da una riforma che nominalmente intendeva abbreviare il percorso di laurea in termini di anni, riducendo il ritardo dei laureati in Italia, e che si è risolto invece in un allungamento degli stessi corsi di studio. Il nuovo triennio avrebbe dovuto dare una formazione generale e una prima professionalizzazione, seguito poi da una laurea specialistica: questo non ha funzionato in forza di un’ulteriore contraddizione. Quella riforma intendeva sviluppare una forza lavoro adeguata a un capitalismo di continua innovazione e lo faceva, però, - paradossalmente - irrigidendo la figura professionale. Ma proprio nella misura in cui vi sia attività innovativa e dunque necessità di una forza lavoro in grado di riprogrammarsi, questa richiede una formazione di tipo più “generalista” che estremamente specialistica. Questo si è accompagnato ad un’autonomia universitaria senza risorse adeguate. Il tutto ha portato a un’esplosione di corsi “finti”, perché non sostenuti da adeguate risorse per la docenza e la ricerca. L’università è diventata in questo modo un “supermarket delle competenze”. Le successive riforme hanno in qualche misura reso più coerente e portato a compimento un processo di riforma inizialmente contraddittorio. La precarizzazione della docenza e della ricerca deriva dalla necessità di rendere sostenibile un modello di università “supermarket”. Dalla Gelmini in poi assume un ruolo cruciale l’elemento della valutazione: uno dei fili conduttori di questo volume da noi curato, in cui cerchiamo di tenere assieme un discorso sulla crisi dell’università, il piano della didattica, della ricerca e infine della valutazione. La valutazione in questo senso è diventata lo strumento principale per disciplinare all’origine la ricerca e svuotare di contenuto critico i programmi didattici.

Vertova: Uno dei fili conduttori è certamente quello del rapporto tra riforme e sistema Paese (in particolare nel saggio di Forges Davanzati sul rapporto con la struttura produttiva). Il secondo filone che seguiamo è quello di un adattamento “disfunzionale” dell’intero sistema della formazione al mercato del lavoro, in base all’idea che non si debba formare un cittadino consapevole, ma un lavoratore “usa e getta”, utile alle esigenze immediate del sistema delle imprese. Questa a nostro avviso è la base di tutte le riforme degli ultimi anni. Nei suoi contributi al volume, Michele Dal Lago descrive bene questo processo come espressione di un ciclo di riforme più ampio al livello europeo e internazionale, con cui si è cercato di costruire una convergenza fra i sistemi di formazione, ispirata a un modello economico di tipo “neoliberista”.

 

La crisi dell’Università italiana è quindi anche frutto di processi di competizione e convergenza fra modelli universitari al livello internazionale?

Bellofiore: Prodotto di una cattiva concorrenza, senza dubbio, in cui non valorizzi i tuoi punti di forza come sistema Paese, ma ti adegui a un modello standardizzato. Questo processo ha coinvolto il sistema universitario così come il sistema economico più in generale.

Vertova: Come succede spesso in questi casi, in Italia si copiano gli elementi più deteriori dei modelli economici e formativi di altri Paesi, come quelli del mondo anglo-sassone e continentale. Bisogna evitare di semplificare: il modello statunitense ad esempio non è fatto solo dall’élite delle università più prestigiose, ma da tutto un complesso di istituzioni locali più piccole. Quando si copiano i modelli esteri, quello che si fa in realtà è isolare alcune caratteristiche – possibilmente neanche quelle più salienti e caratterizzanti – come base di legittimazione per portare avanti riforme che rispondono a interessi particolari. Nella valutazione questo è particolarmente evidente: si è inteso rifarsi a dei presunti standard di eccellenza internazionali, col risultato di mettere in piedi un sistema tale da rendere sempre più impermeabile la riproduzione di un sapere mainstream contro punti di vista alternativi. Un elemento che diventa particolarmente preoccupante nel caso delle scienze sociali e umane, come descritto nella seconda parte del volume a proposito dell’economia: in quel caso si tocca con mano la cancellazione di filoni “eterodossi”, con conseguenze immediate nella produzione di un sapere di primaria importanza per la vita pubblica.    

 

Il modello di Università portato avanti nelle riforme degli ultimi vent’anni ha funzionato, almeno dal punto di vista degli interessi immediati del sistema produttivo? A cosa si deve la sua fortuna?

Vertova: Secondo i suoi sostenitori questo modello ha funzionato perché il tasso di occupazione dopo la laurea pare essere elevato e così via. Il problema è che sia hanno i dati sull’offerta, ma non sulla domanda di lavoro. Se andiamo a vedere le mansioni svolte dai neo-laureati, magari scopriremmo che questi svolgono lavori che non troppo tempo fa avrebbero svolto i diplomati. Per questo bisogna sempre guardare criticamente alle statistiche e numeri di chi decanta il successo della riforma dell’Università e del sistema della valutazione.

Bellofiore: Credo che l’Università non possa fare a meno di un riferimento al mercato del lavoro: ma non può essere lei a definirlo. Nel contesto italiano deve rivendicarsi quindi il diritto ad accedere ad una formazione ad alto livello, anche prescindendo dagli sbocchi lavorativi. Da un modello che è rimasto per certi versi gentiliano, e lo sta tornando ad essere, con la separazione di università di qualità e università di scarto, se ne esce stabilendo dei principi nuovi. Un principio che potrebbe essere definito utopico, in senso positivo di idea guida attorno a cui costruire le proprie rivendicazioni: quello di un sistema di formazione, scuola e università, insieme di massa e di alta qualità. Anche per questo abbiamo voluto ripubblicare l’importante intervento di Lucio Magri sul tema della riforma della scuola: lui non ripropone il modello gentiliano, ma un modello inedito che serva come riferimento culturale e progetto contro-egemonico. Chiaramente premessa di un simile modello di massa e di alta qualità richiede che si pongano gli investimenti pubblici su formazione e ricerca come prioritari.

 

Il libro mette bene in evidenza il nesso tra quella che voi definite una “formazione alla precarizzazione” sulla base di una parallela “precarizzazione della formazione”, che investe sia la didattica che il lavoro della ricerca. In che senso l’Università è divenuta laboratorio di precarizzazione e qual è stato l’impatto sulla qualità della didattica e della ricerca?

Vertova: Nella terza parte del libro ci occupiamo soprattutto dell’università come luogo di lavoro. Come è avvenuto nel settore pubblico e privato, lo sfruttamento del precariato è diventato sistema. La figura precaria per definizione è ricattabile. Il problema è che nell’ambito universitario la ricattabilità si gioca sul versante della ricerca e della didattica. Con l’abolizione dei ricercatori a tempo indeterminato e la creazione di quelli a tempo determinato la condizioni di lavoro e di rappresentanza di chi lavora nella ricerca è cambiata drasticamente. La riforma Gelmini in questo senso spinge, di fatto, i ricercatori ad essere sempre più sottomessi ai professori ordinari, che hanno acquisito così ancora più potere rispetto al passato. Una condizione che modifica alla base lo stesso governo dell’università: i ricercatori a tempo determinato hanno pochissima voce in capitolo negli organi di rappresentanza delle università, mentre dove l’hanno sono spesso messi con le spalle al muro dal potere di ricatto acquisito dai baroni. Si è creata così una figura subalterna nella ricerca e in generale nel suo ruolo nell’accademia. La precarietà diventa in questo modo un meccanismo cruciale nell’incanalare la ricerca, soffocando il pensiero critico.

 

Arriviamo così al nesso tra precarizzazione e sapere critico, con la tendenza che in questo modo si crea a rafforzare il “mainstream” nella ricerca, con conseguenze rilevanti nell’ambito di discipline che hanno impatto immediato nella sfera pubblica: come nel caso dell’economia, cui dedicate un’intera sezione del libro.    

Bellofiore: Come metto in evidenza nel libro, a mio avviso bisogna innanzitutto stare attenti a non rivendicare un “pluralismo” – inteso come creazione di “riserve indiane” per le correnti di pensiero eterodosse – quanto piuttosto affermare alla base la pluralità degli indirizzi di ricerca nei programmi di insegnamento per le scienze sociali. Nell’ambito dell’economia ad esempio si è perso in questo senso un carattere distintivo di una tradizione italiana, sacrificato all’altare di un modello anglo-sassone. Il punto non era spiegare allo studente che esistessero degli approcci eterodossi accanto a quello “vero” o avere insegnamenti di tipo “storico” sulla disciplina separati da quelli teorici. Per i grandi maestri dell’economia in Italia fra gli anni ’50 e ’70 il percorso era diverso. Non vi era distinzione fra praticare la teoria economica e conoscere la storia della disciplina: esisteva un circolo virtuoso fra i due aspetti. Nessuna eterodossia era reputata priva di difficoltà, c’era sempre del lavoro da fare sulle stesse categorie fondanti. Continuo a credere che questa prospettiva problematizzante sia l’atteggiamento corretto, e continuo ad insegnare così. La teoria dominante, nel caso della teoria economica, guarda alla storia della disciplina dal punto di vista di un presente pacificato, in cui si sarebbe ormai affermata “la verità”. Nel caso dei maestri di cui parlo, come Augusto Graziani e Claudio Napoleoni, il presente stesso va visto come non pacificato, attraversato da stili plurali di ricerca in antagonismo. I testi di Graziani e Napoleoni ripubblicati nel libro mostrano proprio come fosse concepita la didattica dell’economia in base a un principio di “pluralità”, contrapposto al pluralismo: nel secondo caso si chiede una stanza per noi come eterodossi, nel primo si combatte come nuova teoria generale; è l’atteggiamento di Marx oltre Ricardo, Schumpeter oltre Walras, Keynes oltre Marshall ...

 

Quali sono a vostro avviso i problemi prioritari del dottorato di ricerca in Italia?

Vertova: Il funzionamento del dottorato in Italia è di per sé molto strano rispetto ad esempio al mondo anglo-sassone. Trovo innanzitutto paradossale che si impongano ai dottorandi corsi ed esami per buona parte del loro percorso, sempre più scollegati dal profilo e interessi del singolo dottorando per via dell’accorpamento dei curricula e corsi dottorali dalla riforma Gelmini in poi. In questo modo si sottrae tempo prezioso per la formazione alla ricerca. Inoltre il sistema attuale tende a subordinare il dottorando al professore di riferimento, attraverso ad esempio la didattica non retribuita e ogni altra attività – informale o meno – di assistenza. Si crea un rapporto di potere a scapito della libertà di ricerca del dottorando e tutto a vantaggio del barone di turno. Per come la vedo, il dottorato dovrebbe davvero essere un periodo di alta formazione in cui si apprenda il “mestiere” del ricercatore, venendo pagato adeguatamente e senza subire pressioni o vincoli di altra natura.  

 
 
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